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Divisione ereditaria di immobili abusivi

L’abusivisimo edilizio è un fenomeno piuttosto diffuso in Italia e con esso si intende la realizzazione di un’opera edile su un suolo considerato non edificabile, oppure la realizzazione di una determinata costruzione senza avere le autorizzazioni previste dalla legge.

Come già analizzato nel precedente articolo riguardante il contratto preliminare di vendita di immobile con abuso edilizi (vedi: http://www.vizzone.it/2019/04/18/contratto-preliminare-di-vendita-di-immobile-con-abusi-edilizi/), laddove un immobile presenti abusi edilizi i maggiori problemi vengono a configurarsi al momento del suo trasferimento.

L’art. 17 della l. n. 47/1985, oggi confluito nell’art. 46 del d.P.R. 380/2001, statuisce che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.

La ratio di tale norma è quella di impedire la circolazione di immobili che presentino gravi violazioni urbanistiche, sanzionando così con la nullità insanabile ogni atto di trasferimento (realizzato sia in forma pubblica che in forma privata) dei beni abusivi.

Nonostante la predetta norma faccia esplicito riferimento agli atti inter vivos, da tempo si è posto il problema relativo alla validità o meno degli atti di divisione di immobili di origine ereditaria che siano in tutto o in parte abusivi e non sanati. In altri termini, le irregolarità urbanistiche possono impedire lo scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici o loro parti, anche nel caso di atti mortis causa?

L’orientamento giurisprudenziale più risalente tendeva ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 17 della l. n. 47/1985 (oggi art. 46, d.P.R. 380/2001) anche alle divisioni ereditarie, sulla base della considerazione per cui la causa negoziale dell’attribuzione nei negozi mortis causa è proprio l’evento morte, mentre alcuna causa specifica è prevista per i negozi inter vivos, ben potendo le parti stipulare il contratto più idoneo a soddisfare le loro esigenze, a condizione che questo sia dotato di una causa propria e che questa sia lecita.

Oggi suddetto orientamento sembra però essere stato superato, la più recente giurisprudenza della Suprema Corte ha infatti escluso che tra le ipotesi di nullità oggi menzionate all’art. 46 del d.P.R. 380/2001 possa essere ricondotta anche l’ipotesi di scioglimento di una comunione ereditaria. A sostegno di quest’ultima tesi, si è osservato come: da una parte, è lo stesso art. 46 che opera un espresso riferimento agli atti posti in essere tra vivi, ragion per cui estendere suddetta invalidità anche agli atti mortis causa andrebbe contro le regole proprie dell’interpretazione normativa (che vedono il criterio letterale primeggiare sugli altri); dall’altra parte non può essere ignorata la circostanza per cui a porre in essere la violazione di legge sia stato il de cuius e che la sanzione della nullità non può pertanto ricadere a scapito di coloro (eredi) che sono stati estranei alle vicende pregresse dell’immobile oggi oggetto della vicenda successoria.

Tuttavia, proprio a causa dell’assenza di un orientamento granitico in materia, la questione è stata di recente rimessa alle SSUU con ordinanza n. 25836 del 16.10.2018. Non ci resta dunque che attendere per conoscere quale sarà il verdetto ultimo degli ermellini.

Roma, 18.04.2019

Avv. Domenico Vizzone

Tel: 06.50931195